Autogestione & co. nella scuola secondaria di secondo grado

 

In vero non esiste nessuna normativa che regolamenti in modo specifico il diritto all’autogestione degli studenti, anche se tale possibilità di aggregazione, seppur temporanea, è regolata in alcune fonti primarie del nostro ordinamento. L’art.12 del D.Lgs. n.297 del 1994 riconosce agli studenti della scuola secondaria superiore il diritto di riunirsi in assemblea nei locali della scuola; il successivo articolo 13 detta le modalità di organizzazione delle assemblee studentesche, indicandone le finalità, il luogo di svolgimento e la durata temporale entro cui è possibile dilatare tale riunione degli studenti. Circa la finalità dell’assemblea il comma 1 dell’art.13 così recita “le assemblee studentesche nella scuola secondaria superiore costituiscono occasione di partecipazione democratica per l’approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti”; più avanti il comma 6 chiarisce che le assemblee di istituto si svolgono durante l’orario delle lezioni, contemplando anche la possibilità, previa autorizzazione del Consiglio di Istituto della “partecipazione di esperti di problemi sociali, culturali, artistici e scientifici, indicati dagli studenti unitamente agli argomenti da inserire nell’ordine del giorno”. L’art.14 disciplina il “Funzionamento delle assemblee studentesche” le quali devono essere regolate per mezzo di un regolamento inviato per presa visione al Consiglio di istituto. E’ nella facoltà del preside intervenire “nel caso di violazione del regolamento o in caso di constatata impossibilità di ordinato svolgimento dell’assemblea”. Stando quindi agli articoli succitati non v’è dubbio che agli studenti è concesso il diritto di aggregarsi e di partecipare democraticamente alla vita della scuola, scegliendo opportunità di confronto diretto ed allargato all’intera comunità scolastica, onde esaminare tematiche  di natura sociale o culturale.

Le assemblee di classe o di istituto nelle scuole secondarie di secondo grado costituiscono il principio logico e diretto di quanto sancito nell’art.17 della Costituzione ossia “il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”; in ordine a tale assunto, appare indubbio che la formazione umana, culturale e sociale degli studenti, in termini di sviluppo continuo e di acquisizione di valori  avviene anche attraverso l’esercizio di tale diritto, perché altrimenti, laddove lo stesso venisse negato non sarebbe possibile parlare per la scuola di luogo educativo e formativo alla convivenza civile degli studenti. Peraltro a conferma di tali affermazioni è intervenuto il D.P.R. n.249 del 1998 “Regolamento recante lo statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria” che ha reso più esplicito questo diritto degli studenti di trovare all’interno della scuola un “luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica.  La scuola è una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio (…) La comunità scolastica, interagendo con la più ampia comunità civile e sociale di cui è parte, fonda il suo progetto e la sua azione educativa sulla qualità delle relazioni insegnante-studente, contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l’educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione della identità di genere, del loro senso di responsabilità e della loro autonomia individuale e persegue il raggiungimento di obiettivi culturali e professionali adeguati all’evoluzione delle conoscenze e all’inserimento nella vita attiva.  La vita della comunità scolastica si basa sulla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono, quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale (art.1). La scuola è quindi un luogo deputato all’imitazione e all’esercizio di principi e valori così come vengono vissuti e palesati nella“più ampia comunità civile e sociale”; luogo prognostico alla formazione dei cittadini.

Ne consegue che gli studenti hanno il diritto di riunirsi all’interno della scuola; inoltre la Corte di Cassazione con la sentenza n.2723 del 1997 ha sottolineato che l’attività didattica inerente la realtà scolastica non suppone “necessariamente modalità predeterminate e rigide concatenazioni di puntualità temporale”, potendo gli scopi che essa si prefigge essere raggiunti anche attraverso “modalità” e “tempi più liberi ed elastici”,  anche se è bene che tale  forma di riunione o associazione sia consona ai principi della legalità e della corretta convivenza civile.

L’autogestione degli studenti, diversamente dall’occupazione che ha carattere più impositivo-eversivo, richiede infatti  che essi abbiano un programma o progetto da svolgere all’interno della comunità scolastica, dando prova, durante lo svolgimento delle iniziative che si intraprenderanno di sapersi autoregolare e gestire autonomamente. Potrebbe diventare non lecito per esempio autogestire una scuola, qualora nelle attività svolte, non vi si riscontri un legame diretto con aspetti che interessano la “più ampia comunità civile e sociale”, trattando tematiche che esulano dall’esercizio della prosocialità. L’autogestione trova migliore giustificazione quando i giovani compiono ”esperienza sociale” e si gestiscono autonomamente anche con finalità educative sottese, perché l’educazione e la formazione avvengono relazionandosi con problemi autentici e non solo nel chiuso delle aule, con rigide concatenazioni temporali.

E’ legittima l’autogestione degli studenti che sia cominciata con formale richiesta al dirigente scolastico, il quale, se oppone un rifiuto all’iniziativa, dovrebbe darne almeno motivazione per iscritto e non verbalmente, giustificando i motivi del diniego. Un categorico rifiuto non troverebbe giustificazione sia per quanto sopra premesso sia perché il diritto degli studenti a riunirsi, con modalità opportunamente stabilite nei regolamenti interni alle scuole, trova sostegno esplicito nell’art.2 comma 10 del D.P.R. n.249 del 1998  “I regolamenti delle singole istituzioni garantiscono e disciplinano l’esercizio del diritto di associazione all’interno della scuola secondaria superiore, del diritto degli studenti singoli e associati a svolgere iniziative all’interno della scuola, nonché l’utilizzo di locali da parte di studenti e delle associazioni di cui fanno parte. I regolamenti delle scuole favoriscono inoltre la continuità del legame con gli ex studenti e con le loro associazioni”. A rafforzare tale disposizione erano intervenuti prima di allora il D.P.R. n.567 del 1996 Regolamento recante la disciplina delle iniziative complementari e delle attività integrative nelle istituzioni scolastiche, nella parte dell’ art. 2 comma 1 “Spazi e tempi per la realizzazione delle iniziative” che così afferma “gli istituti di istruzione secondaria di primo e secondo grado predispongono almeno un locale attrezzato quale luogo di ritrovo per i giovani dopo la frequenza delle lezioni” e l’antesignano D.P.R. n.416 del 1974, negli articoli 42, 43 e 44. Non valgono quindi dinieghi minacciosi tendenti ad esautorare tale diritto, in considerazione del fatto che di recente la giurisprudenza penale è intervenuta, con alcune sentenze, per chiarire gli aspetti in cui l’occupazione o l’autogestione degli studenti possano arrivare a configurarsi come una violazione del diritto penale e quindi essere contestate come reati perseguibili ai sensi di legge.

Gli articoli del codice penale che rientrano nella fattispecie sono l’art.340 e l’art.633, i quali sono stati reinterpretati adeguandoli alla casistica sull’argomento specifico quale è emersa nel corso del tempo. Il primo disciplina l’Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica sicurezza; il secondo l’Invasione di terreni o edifici. Andando a ritroso nel tempo, ad allontanare il periculum di una sanzione penale per gli studenti, in caso di occupazione dell’edifico scolastico e qualora questi ultimi abbiano agito considerando legittimo il loro comportamento,  è stata prima una sentenza della Corte di Cassazione risalente agli anni Ottanta, la n.6949 del 17/05/1988 – 9/05/1989 sez.2, che si è soffermata ad analizzare precipuamente l’elemento soggettivo del reato, specificando che “sebbene la norma di cui all’art. 633 cod. pen. (invasione di terreni o edifici) intenda tutelare non la proprietà in senso giuridico civilistico, bensì la posizione di fatto tra soggetto e bene, tuttavia si impone pur sempre, nel caso dell’imputazione di cui alla citata norma, l’indagine sulla coscienza e volontà dell’agente di porre in essere un comportamento intimamente connesso alla consapevole appartenenza del bene ad un altro soggetto. (Fattispecie relativa a ritenuta insussistenza del reato per esclusa consapevolezza dell’altruità del bene, in quanto gli imputati “intesero ripristinare un loro diritto, preteso o reale” e pertanto “non intendevano arbitrariamente invadere un terreno altrui”). Nel caso in questione, gli studenti che utilizzano legittimamente l’edificio scolastico per fini meramente sociali e culturali e avendo comunque antecedentemente presentato le loro intenzioni al capo della istituzione scolastica, è scontato che portino a monte della loro azione la volontà di far valere un diritto ossia quello di poter utilizzare i luoghi della comunità scolastica allo scopo di affrontare ed approfondire tematiche di natura sociale. In effetti il diritto avanzato trova sostanza nell’art.2 comma 10 del D.P.R. n.249 del 1998 qui sopra richiamato. Ma a rigor di logica affinché un comportamento non risulti sanzionabile è necessario che gli agenti ovvero gli studenti abbiano agito non in modo arbitrario e ci sia stata perlomeno una procedura di richiesta legittima di utilizzo dell’edificio scolastico, perché un’altra sentenza ha così stabilito: “sussiste il reato di invasione di edificio pubblico nel caso in cui l’ingresso avvenga arbitrariamente ed in condizioni di divieto, né rileva la finalità perseguita dagli agenti, che, agli effetti dell’art. 633 cod. pen., può anche consistere nell’aspirazione ad un’utilità non patrimoniale” sent. n. 9384 del 05-07-1989.

Tuttavia sul concetto di invasione reclamato dall’art.633 c.p. di recente la giurisprudenza ha palesato altre motivazioni arrivando ad esplicitare, nella sentenza n.1630 del 14 gennaio 2013, il significato del termine “invadere” attribuito all’articolo suddetto, secondo un’interpretazione letterale, il verbo “invadere” può avere molteplici significati, ossia “fare irruzione violenta o arbitraria”, “entrare o irrompere con impeto o con violenza”, “occupare violentemente” un territorio o un luogo. Allo scopo di individuare con precisione il comportamento penalmente rilevante, va tuttavia osservato che “l’invasione” non può essere intesa né come “occupazione” – la quale può costituire solo una delle finalità specifiche della condotta dell’agente – né comprende alcuna modalità violenta in quanto la medesima, pur potendo in concreto essere esercitata, non è però necessaria per la realizzazione dell’elemento oggettivo: quello che, infatti, la norma richiede è solo che l’invasione sia arbitraria per tale dovendosi intendere la condotta posta in essere senza averne diritto o titolo, senza il consenso dell’avente diritto, oppure senza che sia legittimata da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità competente. Pertanto, alla stregua di un’interpretazione letterale e sistematica della norma in esame, si deve dar seguito a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “l’elemento materiale del reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen., non è l’occupazione ma l’invasione del terreno o dell’edificio, cioè l’introduzione arbitraria nel fondo altrui […] L’arbitrarietà della condotta è ravvisabile in tutti i casi in cui l’ingresso nell’immobile o nel fondo altrui avvenga senza il consenso dell’avente diritto al possesso od alla detenzione ovvero, in mancanza di questo, senza la legittimazione conferita da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità” (Cass. 8107/2000, rv. 216525): infatti, “la nozione di invasione non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce arbitrariamente e cioè, contra ius in quanto privo del diritto d’accesso. La conseguente occupazione deve ritenersi pertanto l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva occupazione”: Cass. 49169/2003, rv. 227692; Cass. 15610/2006, rv. 233970. Non può essere considerato un precedente contrario la sentenza di questa Corte n. 1044/2000 riv 215704 (…) secondo il quale “il concetto di invasione va ricondotto ad una qualunque introduzione dall’esterno con modalità violente”, perché, in realtà, dalla lettura della parte motiva si evince che la Corte si pronunciò prescindendo da tale problematica, in quanto la questione sottoposta alla sua attenzione poteva essere risolta anche condividendo “l’indirizzo giurisprudenziale di un accesso arbitrario nel terreno o edificio altrui, in un’accezione generica non comprensiva di modi ostili”. In altre parole eliminando i modi violenti e contrari ad una condotta che non sia lecita, nello specifico della “invasione di un edificio”,  non rimane punibile che il concetto di arbitrarietà dell’agente.

Nelle fattispecie analizzate, la questione diventa delicata e occorre quindi prestare attenzione al comportamento dell’agente, in quanto la sentenza n.2592 della Corte di Cassazione penale del 20/01/2006 a proposito dell’art.633 c.p. ha chiarito che esso  “non è posto a tutela di un diritto, ma di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa, per cui tutte le volte in cui il soggetto sia già in possesso del bene deve escludersi la sussistenza del reato (Cass. 14.1.94, Lazio)(…) Del resto, è stato anche affermato da questa sezione della Corte che la sola consapevolezza dell’illegittimità dell’invasione di un altrui bene immobile non vale, di per sé, a rendere configurabile il dolo specifico richiesto per la sussistenza del reato di cui all’art. 633 cod.pen” alias l’invasione da parte degli studenti della scuola non può configurarsi come reato poiché essi hanno un rapporto diretto e tangibile con l’edificio scolastico; esso è un luogo che vivono ogni giorno e perlopiù designato allo sviluppo della loro personalità, attraverso la co-partecipazione di altri soggetti interni, in primis il dirigente scolastico che ai sensi dell’art.25, comma 3 de D.Lgs. n.165 del 2001 deve “promuovere gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi (…) e per l’attuazione del diritto all’apprendimento degli studenti” laddove l’apprendimento, oggi più che mai, non si esaurisce esclusivamente nelle modalità di trasmissione di contenuti bensì si estende all’esercizio pieno ed attivo di regole di convivenza civile. La qualità dei processi formativi esige anche un buon livello di comunicazione interna tra i soggetti co-esercenti il processo di educazione e formazione (dirigente e docenti) e i soggetti fruitori(studenti), comunicazione senza la quale ogni intervento parrebbe sterile.

Sul reato configurabile dall’art.633 c.p. in relazione alla occupazioni studentesche, la Corte di Cassazione con sentenza n.1044 del 30/03/2000 ha aggiunto che “ non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima….. L’edificio scolastico, inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto.” Quindi, se opportunamente richiesta, la facoltà di utilizzare l’edificio scolastico per altri scopi che esulano la didattica in senso stretto, ma che sono comunque complementari alla piena esplicazione del servizio educativo non si vede perché queste attività debbano essere catalogate alla stregua di reati.

Tutt’al più che l’art.633 c.p. e l’altro reato previsto dall’art.340 del c.p., l’Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica sicurezza” in riferimento alle occupazioni studentesche sono stati anche oggetto di un’altra sentenza del Tribunale di Siena del 29 ottobre 2001 che ha in più punti del testo fatto luce in ordine all’argomento e che merita qui di essere riportata nella sua versione quasi integrale proprio perché permette di evitare che simili iniziative siano classificate alla stregua di reati che violano il nostro ordinamento. La sentenza così riporta: “l’occupazione studentesca di un edificio scolastico non consiste in un’azione necessariamente identica a quella dell’”invasione di un edificio al fine di occuparlo”, evocata dalla norma penale. La ratio dell’art. 633 CP è quella di proteggere il patrimonio immobiliare da arbitrarie intromissioni altrui, sicché, come è stato chiarito recentemente dalla Cassazione: “…il concetto d’”invasione” va ricondotto ad una qualunque introduzione dall’esterno, con modalità violente…” (Cass., sez. II, sent. n. 1044 del 30.3.2000). Il nucleo essenziale della condotta tipica – l’accesso arbitrario o violento all’edificio altrui – non è rintracciabile nella condotta degli odierni imputati, a meno di non aderire ad un’interpretazione analogica in malam partem della disposizione penale, operazione ermeneutica vietata dall’ordinamento. Da un lato, infatti, gli studenti non hanno invaso l’edificio scolastico nel quale semmai si sono trattenuti, senza autorizzazione, durante il pomeriggio; d’altro canto, difetta l’altruità dell’edificio, secondo quanto è stato recentemente sottolineato dalla giurisprudenza più avvertita e sensibile alla complessità ed importanza del fenomeno della formazione scolastica dei giovani, che ha stabilito che: “….la scuola, anche in forza del D.P.R. n. 416/1974 costituisce una realtà non estranea agli studenti, nel senso, cioè, che gli studenti non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica a mezzo di una partecipazione nella gestione, che conferisce un ben più incisivo potere-dovere di collaborazione, di protezione e di conservazione della stessa, nonché d’iniziativa per il miglioramento delle strutture e dei programmi d’insegnamento; e non sembra, invero, configurabile un loro limitato diritto d’accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività didattica in senso stretto.” (Cass., sent. 30.3.2000 cit.). I fatti oggetto del processo sono estranei all’area dell’illecito penale – necessariamente ristretta alle più gravi ed intollerabili aggressioni dei beni giuridici tutelati dall’ordinamento – e costituiscono l’esercizio da parte degli studenti di alcuni fondamentali diritti degli individui, quali il diritto di riunirsi pacificamente (art. 17 Cost.), il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, che comprende il diritto di critica (art. 21 Cost.; Cass., sez. VI, sent. n. 7822 del 16.6.1999). L’esplicazione di questi diritti fondamentali da parte dei giovani è funzionale all’auspicabile risultato di un’effettiva partecipazione degli studenti alla vita della comunità scolastica della quale essi sono, insieme al corpo insegnante ed al personale amministrativo, i principali soggetti attivi. Eventuali irregolarità nel comportamento degli imputati, di rilevanza tale da non determinare l’interruzione o la turbativa dell’esercizio dell’attività didattica ed il pregiudizio del diritto allo studio della collettività degli studenti, anch’esso costituzionalmente protetto (art. 34 Cost.), riconducibili, per esempio, al mancato tempestivo avviso alle autorità scolastiche dell’iniziativa assunta, rivestono, a giudizio del tribunale, esclusiva valenza disciplinare, posto che si è accertato che l’occupazione della scuola non è stata attuata mediante azioni particolarmente invasive, quali: il blocco delle lezioni, l’espulsione dei docenti, il blocco degli accessi alla scuola ed il divieto di accesso a tutti, esclusi gli occupanti. Queste considerazioni inducono a rimarcare la stretta correlazione esistente tra l’occupazione studentesca penalmente rilevante e l’interruzione del pubblico servizio didattico, nel senso che l’occupazione riconducibile all’art. 633 CP si verifica quando gli occupanti interrompono o turbano le attività che si svolgono nella scuola. La ratio dell’art. 340 CP consiste nella tutela del buon andamento e della regolarità del funzionamento dei vari settori della pubblica amministrazione. A questi concetti non bisogna attribuire un limitato significato formalistico, secondo cui il bene giuridico è effettivamente tutelato solo se è preservata l’intangibilità assoluta della PA. Si tratta, invece, di compiere una verifica più sottile volta a stabilire quale sia l’obiettivo politico-sociale cui è finalisticamente orientato il servizio pubblico che si assume violato dall’azione delittuosa; in altri termini, si pone il problema della concretizzazione e specificazione dei beni giuridici “superindividuali”, al fine di riempire di contenuti categorie giuridiche altrimenti vaghe e generiche. L’attività didattica mira alla formazione degli studenti, nell’ambito delle diverse materie, secondo determinati programmi di studio. Contrariamente ad altri servizi pubblici, tale attività non postula “necessariamente modalità predeterminate e rigide concatenazioni di puntualità temporale”, potendo gli scopi che essa si prefigge essere raggiunti anche attraverso “modalità” e “tempi più liberi ed elastici” (Cass., sez. VI, sent. n. 2723 del 21.3.1997). Non è, quindi, ravvisabile alcuna obiettiva, e non solamente potenziale, lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 340 CP (Cass., sez. VI, sent. n. 338 del 6.6.1967; Pretore di Roma, 30.1.1992). Il contenuto della sentenza avvalora la tesi che l’occupazione o l’autogestione degli studenti, se regolate in modo pacifico e senza che arrechino turbativa al normale svolgimento delle attività didattiche non possono delinearsi come reati; gli studenti si vedono riconosciuti il diritto di considerare l’edificio scolastico come un luogo che gli appartiene e di cui devono prendersi cura ai fini di concorrere al “miglioramento delle strutture e dei programmi d’insegnamento”; in ultimo il diritto di riunirsi e di manifestare liberamente il proprio pensiero spazia in modo del tutto singolare infra la sentenza, confermando l’assunto che qualsiasi richiesta legittima di un diritto riconosciuto ha prevalenza specifica su ogni immotivato rifiuto, perché democraticamente parlando la scuola è prima di ogni cosa “una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni” (D.P.R. 249/1998) e ad ogni modo le scelte che in essa si intraprendono devono essere legittimamente giustificate.

Katjuscia Pitino