Brevi note su Corte Costituzionale n. 311 del 26-11-2009

 

“Motivi imperativi di interesse generale” consentono al potere legislativo di intromettersi nell’amministrazione della giustizia”.

E’ questo il senso della pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 311 del 26 novembre 2009)

La sentenza segna un’altra tappa nell’annosa vicenda processale relativa al passaggio del personale ATA della scuola dagli EE.LL. allo Stato, disposta con legge n. 124/1999.

Com’è noto, l’art. 8 della legge in questione prevedeva l’inquadramento di detto personale nelle qualifiche funzionali e nei corrispondenti profili professionali statali, stabilendo – questo è il punto controverso – che a detto personale fosse riconosciuta “ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza”.

Successivamente, un accordo tra l’ARAN e le organizzazioni sindacali, recepito da uno dei decreti ministeriali di attuazione della legge n. 124 del 1999 (decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del bilancio e della funzione pubblica del 5 aprile 2001), aveva disposto -ai fini del primo inquadramento- di considerare l’anzianità in base al “maturato economico” in vece dell’effettiva anzianità conseguita.

Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso e la stessa Corte di cassazione aveva in più occasioni negato che il diritto al riconoscimento dell’anzianità “ai fini giuridici ed economici” attribuito dalla legge n. 124 del 1999 potesse essere ridotto a quello del maturato economico da una disciplina di rango inferiore.

Successivamente con l’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 veniva formulata un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 , secondo la quale occorreva far riferimento comunque al principio del maturato economico.

La Corte Costituzionale -con sentenza n. 234 del 2007 e le ordinanze n. 400 del 2007 e n. 212 del 2008- dichiarava non fondate e manifestamente infondate le questioni di costituzionalità della predetta norma interpretativa sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 Cost.

La Corte di cassazione rigettava dunque i ricorsi con sentenza 16 gennaio 2008 n. 677, dichiarando peraltro non fondate le censure di incostituzionalità, salvo poi riproporre la questione con ordinanza del 4 settembre 2008 (r.o. n. 400 del 2008), in riferimento agli articoli 117, primo comma, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Sul punto, occorre rilevare che -secondo la giurisprudenza della Corte europea- “la parità delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di controversie”, scopo questo desunto “dall’incidenza oggettiva che la norma denunciata ha sull’esito di controversie pendenti e dalla qualità di parte dello Stato-amministrazione in tali controversie”.

La Corte di Strasburgo, infatti, ha in più occasioni sottolineato come lo Stato non possa introdurre slealmente una interpretazione normativa a suo favore della norma sub iudice, nei giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi o giurisprudenziali. L’applicazione dello ius superveniens potrebbe ritenersi lecita soltanto in presenza di “impérieux motifs d’intérét général”, non ravvisabili in “mere esigenze di natura finanziaria connesse al rischio derivante dalla soccombenza nei giudizi avviati nei confronti dello Stato amministrazione”.

Orbene, con l’annotata sentenza, la Corte Costituzionale sembrerebbe voler porre la parola fine all’annosa questione, rinvenendo nel caso in specie quei “motivi imperativi di interesse generale” la cui sussistenza era stata in passato ritenuta in casi invero del tutto eccezionali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003) che si riferiva a ragioni storiche epocali.

Tali circostanze non sembrano rinvenirsi nel caso de quo, riguardante certamente un elevato numero di interessati, ma all’interno di un’operazione di riassetto organizzativo non certamente di dimensioni epocali.

Ancora meno convincente risulta l’argomentazione di voler “garantire una generale perequazione di tutti i lavoratori del comparto scuola”.

Invero, il mancato riconoscimento dell’anzianità effettiva realizza un evidente vulnus in tal senso, stabilendo trattamenti retributivi differenziati di lavoratori con le medesime mansioni, unicamente in base alla mera provenienza dei medesimi (dagli enti locali, piuttosto che dallo Stato).

Né d’altra parte, poteva escludersi la sussistenza di un “diritto vivente” solo perché le pronunce della Cassazione -fino al ricorso alla legge di interpretazione autentica – erano state assunte a sezioni semplici, piuttosto che a sezioni unite.

La pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite è prevista “sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici” (art. 374, co. 2, c.p.c.).

Proprio perché tale contrasto non si era verificato – sussistendo dunque un unanimismo difficilmente riscontrabile in vertenze di tale portata- non si era resa necessaria la pronuncia a sezioni unite.

Per la Corte Costituzionale, il non intervento delle sezioni unite (come si è visto del tutto superfluo ) dimostrerebbe la mancanza di un diritto vivente e la legittimità del ricorso alla norma interpretativa, in virtù di un (preteso) “dibattito giurisprudenziale irrisolto”.

Avvocato Francesco Orecchioni