“Quer pasticciaccio brutto” della settimana corta negli Istituti Comprensivi

 

Negli ultimi tempi le scuole si stanno avviando verso l’adozione della settimana corta che prevede un monte ore di lezione con una distribuzione delle attività didattiche dal lunedì al venerdì, da svolgersi solo in orario antimeridiano o a scelta anche con una stratificazione oraria pomeridiana, realizzata attraverso dei rientri che permettono di alleggerire il tempo scuola giornaliero. Il modello della settimana corta può quindi articolarsi su una duplice modalità di organizzazione didattica, fermo restando che il principio da salvaguardare, in ordine ad ogni scelta praticata dalle scuole, deve essere la garanzia del diritto all’educazione e all’istruzione dei minori.

La questione della settimana corta ha ingenerato non pochi problemi, in specie negli Istituti Comprensivi, laddove la decisione di adozione o meno, comporta il punto di vista di ben tre  differenti ordini di scuola, infanzia, primaria e secondaria di I grado, che con diverse e peculiari esigenze, spesso non si trovano troppo d’accordo sul fatto che gli alunni, in particolare quelli della primaria e secondaria di I grado, vista l’età, siano pronti a sostenere, un monte ore giornaliero di attività didattiche eccessivamente lungo.

L’autonomia scolastica ha concesso ampi spazi di libertà organizzativa e didattica, lasciando alle singole scuole l’onere di scegliere l’articolazione oraria e la relativa distribuzione temporale più consona ai bisogni formativi degli alunni e alle esigenze del contesto di riferimento.

Nei fatti le scuole giustificano l’adozione della settimana corta sia con una migliore efficacia ed efficienza della macchina amministrativa (il risparmio economico di questi tempi ha una valenza  piuttosto cogente) sia con la promozione di un modello di gestione familiare più aggregante e socializzante. In questo caso non è dato sapere perché la scuola, come agenzia educativa al pari della famiglia, debba fungere da sprone alla ricongiunzione di legami familiari sedicenti pericolanti. Tale ultima giustificazione appare marcatamente insignificante.

Tuttavia, a parte le motivazioni salienti che si adducono per sostenere il modello della settimana corta, un principio resta saldo ed ineludibile: il comma 2 dell’art.1 del D.P.R. n.275 del 1999, Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, che specifica proprio la natura e gli scopi della autonomia, su un punto è chiaro “l‘autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”. La citazione è nella sostanza già interpretativa delle condizioni da non sottovalutare in caso di decisione di adozione della settimana corta: il contesto di riferimento, la domanda delle famiglie ed in primis le caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, i quali, considerata la fascia di età dai 5 ai 13, potrebbero mal sopportare la soluzione di un monte orario giornaliero di attività didattiche, distribuite su sei ore consecutive. In questo senso i risvolti sono anche pedagogici e meritano di essere considerati nelle sedi opportune con la dovuta cautela.

Tutt’altra cosa è al contrario l’iter decisionale e procedurale dei soggetti direttamente coinvolti che precede all’adozione vera e propria del modello della settimana corta. In ordine a questo punto è bene richiamare l’art.16 del D.P.R. 275 il quale parla esplicitamente di “coordinamento delle competenze” tra i diversi soggetti che, nel quadro dell’autonomia scolastica, sono tenuti proprio a realizzarla; si legge infatti che “gli organi collegiali della scuola garantiscono l’efficacia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche nel quadro delle norme che ne definiscono competenze e composizione. Il dirigente scolastico esercita le funzioni di cui al decreto legislativo 6 marzo 1998, n. 59, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali. I docenti hanno il compito e la responsabilità della progettazione e dell’attuazione del processo di insegnamento e di apprendimento. (…) Il personale della scuola, i genitori e gli studenti partecipano al processo di attuazione e sviluppo dell’autonomia assumendo le rispettive responsabilità”.

Fin qui è chiaro senza alcun dubbio che gli attori coinvolti nei processi decisionali siano gli organi collegiali, il dirigente scolastico, il personale della scuole e le famiglie. Così nell’ipotesi di dover decidere sull’eventuale adozione della settimana corta, ogni componente, nei limiti delle competenze proprie che le sono assegnate, può esprimere contrarietà e riserve. Qualsiasi soluzione o modalità evocata e deliberata dagli organi competenti, necessita di un’attenta analisi, in specie, sull’argomento della settimana corta, perché si potrebbe venire a configurare, sia una lesione dei diritti degli alunni che degli stessi lavoratori e cioè i docenti, interessati ad una diversa articolazione del monte ore lavorativo giornaliero. In effetti, a ben vedere, se la modalità della settimana corta, adottata dalla scuola prevede una stratificazione giornaliera di sei ore di attività didattiche, diluite solo in orario antimeridiano, (quindi dalla 8 alla 14) parrebbe non sussistere nessun problema, salvo l’insoddisfazione di quanti, in sede di delibera, avrebbero comunque espresso un parere contrario a tale articolazione oraria, a prescindere dalle motivazioni addotte. Diversa è la questione se il modello della settimana corta preconizza un riduzione dell’unità oraria di lezione. Per tale ipotesi i risvolti sono anche contrattuali e vanno definiti accuratamente nelle sedi opportune.

L’art.4 del citato DPR 275 sancisce che uno dei dispositivi fondamentali dell’autonomia scolastica è la flessibilità didattica che le scuole realizza precipuamente anche attraverso una propria regolazione dei “tempi dell’insegnamento e dello svolgimento delle singole discipline e attività nel modo più adeguato al tipo di studi e ai ritmi di apprendimento degli alunni”, più avanti lo stesso articolo aggiunge che “a tal fine le istituzioni scolastiche possono adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune e tra l’altro (…) la definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l’unità oraria della lezione”.

La riduzione dell’unità oraria è quindi espressamente prevista dal Regolamento sull’autonomia, anche se una sua eventuale adozione richiede la considerazione di due elementi fondamentali: il primo, in assoluto, è l’impossibilità di ridurre agli alunni il monte orario del curricolo obbligatorio, così come previsto dalla normativa vigente, D.P.R. n.89 del 2009; il secondo elemento che non si può ignorare è che in caso di riduzione dell’unità oraria per motivi legati alla didattica, i docenti sarebbero comunque soggetti al recupero delle frazioni orarie lavorative non prestate, l’art.41 del CCNL del 1995 dispone infatti che “qualora siano state deliberate sperimentazioni autonome che comportino la riduzione della durata dell’unità oraria di lezione, i docenti completano l’orario d’obbligo con attività connesse alla sperimentazione o con altre modalità previste dallo stesso progetto di sperimentazione”.

Nelle fattispecie sopra citate, recupero del monte ore degli alunni e delle unità orarie non prestate dai docenti, il problema non sussiste allorquando le decisioni siano state prese all’unanimità. Al contrario si palesa quando viene a crearsi un vero e proprio conflitto di competenze che rischia di generare un caos istituzionale, tale da far perdere di vista l’obiettivo  principale della scuola ossia “la realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana” (art.1 D.P.R. n.275/1999), nonché quando si disattende lo scopo alto della scuola dell’autonomia che è quello di garantire, anzitutto, il successo formativo degli alunni.

Sull’argomento della settimana corta la giurisprudenza amministrativa ci ha fornito di recente, attraverso la sentenza 523/2013 del TAR Sicilia,  l’esempio di un primo conflitto di interessi che ha visto schierati alcuni genitori contro il Miur, un Istituto Comprensivo e il relativo Consiglio di Istituto proprio in ordine all’adozione della settimana corta, la quale organizzazione non aveva tenuto in debita considerazione il fatto che si venisse a configurare, per le classi di una scuola primaria, una riduzione del monte ore complessivo previsto dall’attuale normativa vigente, in considerazione che le classi in questioni erano intermedie e che su queste si applicava ancora il vecchio modello orario previgente prima che intervenisse la Riforma Gelmini, ex art.4 D.P.R. n.89 del 2009 e C.M. n.25 del 29 marzo 2012.

Sulla riduzione del monte ore i ricorrenti hanno ottenuto l’annullamento delle deliberazioni adottate dagli organi competenti. Peraltro la sentenza è interessante perché infra al testo, dà chiarimenti su altro elemento accennato all’inizio ovvero sul coinvolgimento delle componenti che occorre consultare prima dell’adozione di un qualsiasi provvedimento che modifichi, come nel caso specifico, l’organizzazione didattica della scuola. Si rievoca infatti la sentenza 466 del 15 giugno 2000 del TAR Umbria, la quale puntualizza che a proposito di deliberazioni organizzative assunte in ambito scolastico, se è pacifico il fatto di garantire la partecipazione di tutti i soggetti interessati, d’altro canto tale principio della partecipazione non deve intendersi in senso letterale giacché “altrimenti, si dovrebbe ritenere che la norma imponga una sorta di consultazione generale di tutti gli alunni, dei loro genitori, dei presidi, dei professori, dei dipendenti amministrativi, degli organi collegiali delle scuole, degli enti locali, delle organizzazioni sindacali (e chi più ne ha più ne metta). Il tutto, così da condurre all’assoluta ingovernabilità del procedimento, visto anche che lo stesso è inserito nell’ambito dell’organizzazione scolastica dove anche nei settori operativi non nuovi, a fatica, sovente, si riescono ad individuare quei centri decisionali che invece dovrebbero essere di immediata percezione”.

Secondo tale affermazione il rispetto andrebbe quindi esercitato in misura proporzionale, trovando modalità equilibrate che siano rispettose della partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. Nel caso specifico dell’adozione della settimana corta, la prassi ormai consolidata suggerisce di garantire la partecipazione delle famiglie attraverso apposito sondaggio. D’altra parte l’organo collegiale competente che “ha potere deliberante in materia di funzionamento didattico del circolo e dell’istituto” è il Collegio dei Docenti, ex art.7 comma 2, lett.a) del D.Lgs. 297/1994, anche se le competenze del Consiglio di Istituto, in materia di organizzazione e programmazione della vita e dell’attività della scuola, si situano su un versante paritetico, dovendo essere rispettose di quelle attribuite al Collegio dei Docenti.

La Circolare Ministeriale n.105 del 1975 avente ad oggetto l’applicazione del regolamento tipo per il funzionamento degli organi collegiali, all’art.3 parla di “Svolgimento coordinato delle attività degli organi collegiali” ribadendo che ciascun organo collegiale opera in forma coordinata con gli altri organi collegiali che esercitano competenze parallele, ma con rilevanza diversa, in determinate materie. Ai fini di cui al precedente comma si considerano anche le competenze, in materia definite, di un determinato organo quando il loro esercizio costituisca presupposto necessario od opportuno per l’esercizio delle competenze di altro organo collegiale”. Per nessun motivo è possibile quindi disattendere tale dispositivo della compartecipazione e cogestione, come al contrario spesso accade nelle scuole, in cui si dà adito solo alle competenze e alle delibere adottate da un determinato organo, il più delle volte il Consiglio di Istituto la cui consistenza numerica è senza dubbio inferiore rispetto a quella dell’altro organo e quindi facilmente più gestibile.

Diversa è la prospettiva se nell’adozione della settimana corta siano schierati, con pareri contrari, due diversi ordini di scuola, la primaria e secondaria di I grado; ordini che a guardar bene la normativa vigente potrebbero avere anche una diverso monte orario settimanale,  per esempio di 27 ore la prima, di 30 la seconda; su questo punto la maggioranza all’interno dei Collegi Docenti negli Istituti Comprensivi è spesso a favore della scuola primaria e questo quasi sempre a scapito dei docenti della scuola secondaria di I grado, i quali a causa di una consistenza numerica inferiore si trovano quindi a dover subire decisioni non condivise.

Riguardo alle deliberazioni degli organi collegiali, il comma 3 dell’art.37 del D.Lgs, n.297 del 1994 non lascia alcun dubbio: esse si intendono “adottate a maggioranza assoluta dei voti validamente espressi, salvo che disposizioni speciali prescrivano diversamente” fermo restando la possibilità per i componenti dell’organo di astenersi.

A ciò si aggiunga che negli anni Novanta, dopo la neo costituzione dei primi Istituti Comprensivi, l’O.M. del 1995, n.267 ha specificato all’art.3 che nei predetti istituti “viene costituito un unico collegio dei docenti per la nuova istituzione verticalizzata” ma “articolato in sezioni per ciascun ordine di scuola presente nell’istituzione medesima”; la C.M. n.268 del 1995 ha sottolineato proprio in merito al funzionamento del Collegio di Docenti che “viene convocato per sezioni quando siano da valutare problematiche specifiche di uno dei settori scolastici compresi nella nuova istituzione, ed in tal caso le relative deliberazioni hanno valenza circoscritta agli stessi ambiti settoriali, come, ad esempio, per la programmazione dell’azione formativa nonché per la connessa valutazione periodica volta a verificare l’efficacia dell’attività didattica in rapporto agli obiettivi programmati, per l’adozione dei libri di testo, per le iniziative di sperimentazione metodologica che siano limitate alle classi di un solo settore di istruzione. Ovviamente la programmazione di ciascuna sezione deve essere formulata in maniera coerente con un più ampio progetto d’istituto la cui elaborazione, per gli aspetti formativi, di organizzazione della didattica e pedagogici, compete al Collegio plenario dei docenti, che assicura la continuità tra i diversi settori di istruzione, con riguardo anche alle attività di sostegno agli alunni in situazione di handicap. Sono peraltro di competenza dell’intero Collegio dei docenti, a titolo esemplificativo, le iniziative in materia di orientamento scolastico e quella di sperimentazione degli ordinamenti e delle strutture o che, comunque coinvolgano classi appartenenti a ordini diversi di scuole” .

Successivamente l’O.M. del 1998 n.277 ha puntualizzato che, riguardo alla gestione degli organi collegiali e soprattutto quella del Collegio dei Docenti, “ciascuna sezione viene convocata dal preside per pareri e deliberazioni relative a questioni e problematiche specifiche riferite alla singola sezione, che devono essere coerenti con il piano annuale delle attività formative dell’istituto e con la programmazione didattico-educativa generale predisposti dal collegio dei docenti plenario, ai sensi dell’art. 7, comma 2, del decreto legislativo 16/4/1994, n 297”.

Al riguardo non è neanche superfluo ricordare la C.M. n.274 del 1984, in base alla quale il Collegio dei Docenti allo scopo “di pervenire a compiute motivazioni di deliberazioni finali, richiede spesso – soprattutto quando debba affrontare problemi complessi – la preventiva elaborazione della documentazione necessaria sulle varie situazioni cui si rivolge l’intervento scolastico e sugli strumenti e metodi disponibili o acquisibili, documentazione che deve fornire un obiettivo quadro di informazioni e, quindi, di riferimenti operativi e di riscontri utili alla concretezza degli ulteriori approfondimenti. A tale scopo appare utile che il collegio dei docenti, nell’esercizio dei poteri di autorganizzazione che gli sono propri, prenda in considerazione la possibilità di articolarsi in commissioni o gruppi di lavoro, ai quali affidare compiti istruttori e di analisi preliminare dei vari aspetti e delle varie incidenze dei problemi da esaminare.

Ora ritornando al discorso della settimana corta, qualora si palesasse una conflitto legato, non alla concreta sua adozione ma bensì ad una diversa prospettiva di articolazione oraria nei due ordini di scuola, primaria e secondaria di I grado, è chiaro che la logica suggerirebbe da parte dell’ordine non direttamente interessato, di applicare in sede di votazione il dispositivo dell’astensione, cosicché si avrebbe un vero e proprio rispetto delle competenze di ciascun ordine, non venendo a ledere in nessun modo il principio del collegio unitario. Tuttavia, come accade spesso negli Istituti Comprensivi, il principio della unitarietà delle decisioni prevale sulle effettive esigenze, non solo dei docenti ma anche degli alunni che il più delle volte pagano il prezzo di una cattiva gestione dirigenziale o perché si ignora del tutto la possibilità che il Collegio dei Docenti possa anche articolarsi in sezioni. Si trascura il fatto che le riunioni dei collegi di sezione potrebbero avere una valenza non solo preparatoria ma anche gestoria delle deliberazioni da assumere nei collegi unitari, contribuendo così a realizzare concretamente quella verticalità tanto decantata che altro non è che un principio di democrazia scolastica pur non dovendo mai perdere di vista il diritto allo studio degli alunni e la qualità dell’offerta formativa.

Katjuscia Pitino