La Cassazione condanna i docenti italiani al precariato a vita ma la Commissione europea apre due procedimenti d’infrazione nei confronti dello Stato italiano. Come uscire dal corto circuito?

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Lo Stato ha fatto bingo?

Sembra di sì, almeno secondo la Cassazione: il Ministero della Pubblica Istruzione, l’Avvocatura dello Stato, tutta la pubblica amministrazione hanno vinto contro il mostro del precariato (“il peggio dell’Italia”, come  ebbe a dire uno dei migliori “tecnici” d’antan del diritto del lavoro, il mitico ministro Brunetta).

Ed hanno vinto, sembra, alla grande.

La Corte di Cassazione, infatti, con la decisione n. 10127 del 20 giugno 2012, una sentenza di 30 pagine (e 73 punti numerati, esposizione inusuale per la Corte italiana: ma forse una spiegazione c’è, come vedremo), dice no ai precari della scuola, docenti e personale ATA.

Dopo lo svarione della sentenza 392 del 13 gennaio 2012, dove l’illustre collegio censurava la conversione dei rapporti di pubblico impiego in caso di reiterazione di contratti a termine senza accorgersi che si trattava di una causa in cui era stato stipulato un primo ed unico contratto, ora la Corte affronta di petto il problema della successione ed il nodo della clausola 5 della Direttiva UE 99/70.

Il risultato è al di là delle aspettative:

– No alla conversione dei rapporti, anche se protratti per anni e anni e anche se relativi alla copertura di posti vacanti in organico di diritto;

– No al risarcimento del danno, pur previsto dall’art. 36 del D.Lgs. 165/2001, in caso di reiterazione abusiva di contratti a termine;

– No, addirittura, agli scatti biennali di stipendio: il precario della scuola deve rimanere sotto pagato per legge.

No a tutto, insomma. Il precario della scuola non ha diritti: è ontologicamente diverso dal collega di ruolo.

Come è possibile? Vedremo punto per punto. Ma prima facciamo una breve cronistoria, necessaria per contestualizzare la decisione in commento.

La Direttiva UE 99/70, alla clausola 5 impone che gli Stati membri devono adottare misure preventive ed effettive finalizzate a evitare la reiterazione abusiva dei contratti a termine (ragioni obiettive per la stipulazione, numero dei rinnovi o durata massima dei contratti), oltre che a prevedere, se del caso, quando ricorre una successione di contratti e l’eventuale loro trasformazione a tempo indeterminato.

L’Italia, nel settore privato, già aveva misure idonee costituite dall’obbligo di ragioni obiettive e, più recentemente, dall’art. 5 comma 4 bis [1] che dispone la trasformazione dopo 36 mesi di lavoro a termine calcolati sommando più contratti e proroghe.

Resta il settore pubblico.

Anche qui, la logica dice che di fronte ad una reiterazione abusiva la sanzione non può che essere la conversione. Così, del resto, dispone la legge francese (sentenza Huet), quella tedesca (sentenza Kücük e conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen nella causa Jansen, collegata alla causa Kücük) e, addirittura, quella che regola il rapporto dei dipendenti del parlamento europeo (Sentenza del Tribunale della Funzione pubblica del parlamento europeo in causa F-205/09 del 13.04.11, competente a decidere sulle controversie tra i dipendenti e il Parlamento europeo). Tutte normative approvate dai principali stati membri della Comunità europea – e dalla comunità europea stessa nei rapporti con i suoi dipendenti – in attuazione della clausola 5 della Direttiva UE 99/70.

L’Italia, invece, fa parte a sé: sotto l’usbergo dell’art. 97 della Costituzione, al pubblico impiego, nel nostro paese, si accede solo tramite concorso, salvo i casi previsti dalla legge.

L’art. 97, che inizialmente doveva essere una norma di garanzia che consentiva a tutti l’accesso ai posti pubblici ed evitava assunzioni clientelari, è divenuto, negli ultimi anni, lo strumento principale per mantenere nella condizione di precariato decine di migliaia di lavoratori.

Lo Stato italiano, anziché bandire i concorsi, in molti settori della Pubblica Amministrazione ha invece preferito continuare ad assumere a termine, a costi inferiori e creando un esercito di dipendenti ricattabili e ricattati. Senza contare che i precari non fanno numero e così lo Stato può tenere a bada i “conti” in ambito internazionale dichiarando solo i dipendenti fissi ed ignorando i precari.

Ciò è tanto più vero nel settore della scuola, dove ormai, contro ogni logica e ogni ragionevolezza, una buona fetta del personale impiegato nel servizio scolastico, pur avendo partecipato e superato le procedure selettive e concorsuali previste dalla legge (dunque, nessuna violazione dell’art. 97 in caso di immissione in ruolo), non è assunto in via definitiva, ma quale precario “ a tempo indeterminato”.

Occorrerebbe aggiungere che l’immotivata precarizzazione del personale docente arreca un evidente danno al buon funzionamento del servizio pubblico d’istruzione, ancora una volta costituzionalmente rilevante ai sensi dello stesso art. 97 della Costituzione. È, difatti, evidente che il mantenimento di ampie scoperture d’organico e la relativa attribuzione dei relativi posti a personale precario, se da un alto frustra le legittime aspirazioni dei docenti ad una stabilità professionale e di vita (con le ovvie conseguenze, sul piano psicologico, in danno di coloro che dovrebbero essere – e, spesso, si sforzano comunque di essere – i ‘motivatori’ delle nuove leve), d’altro canto, e in misura non meno grave, costringe gli alunni, anno per anno, ad un irrazionale ‘balletto’ di docenti, assolutamente deleterio sotto il profilo della continuità didattica e, quindi, dell’apprendimento.

Come può agevolmente desumersi dall’elencazione dei servizi svolti dai docenti precari, questi ultimi, dopo lunghi anni d’insegnamento, non hanno mai potuto seguire una classe per un intero ciclo di studi; sono stati costretti a recarsi presso le più disparate sedi scolastiche, ove, spesso, l’anno precedente avevano svolto servizio altri docenti precari, e così a catena; corrispondentemente, gli alunni hanno sempre dovuto ricominciare con un nuovo docente, un nuovo metodo d’insegnamento, un nuovo approccio e, alla fine, un insostituibile bagaglio di esperienze didattiche e relazionali (spesso anche affettive) è sfumato nel nulla.

Una cosa comunque a noi pare certa: il servizio scolastico, ex art. 33 Costituzione, costituisce uno dei compiti principali del nostro Stato (e, peraltro, di qualsiasi stato democratico occidentale) e dunque non si giustifica un così massiccio ricorso al personale precario.

L’obiettivo perseguito dalla Direttiva UE 99/70 impone, come si è visto, misure finalizzate alla prevenzione e  repressione degli abusi nell’utilizzo dei contratti a termine in quei settori dove l’attività è ordinaria (stabile e durevole, come si esprime la Corte europea) e dunque non necessita di personale precario (almeno non in termini così massicci).

Nel nostro ordinamento, per il vero, una misura preventiva nel pubblico impiego, finalizzato a prevenire la reiterazione abusiva dei contratti a termine c’è: l’art. 36 del D.Lgs. 165/2001 (testo unico del pubblico impiego: ma non della scuola, dice la Cassazione, come vedremo tra poco) prevede, quale misura preventiva (comma 2) il ricorso a forme flessibili di rapporto solo per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali e prevede, quale sanzione, non la conversione, ma solo il risarcimento del danno[2], e solo, si badi bene, in caso di contratti a termine stipulati in violazione di norme imperative.

La Corte europea, con ripetute pronunce, ha affermato che una norma che consentisse la reiterazione continua di contratto a termine di per sé sola, si presenterebbe contraria alle finalità della Direttiva[3].

Più in particolare poi, con le sentenze Marrosu e Vassallo, investita dalle ordinanze del Tribunale di Genova, ha affermato che la sanzione del solo risarcimento del danno, non osta contro le disposizioni della clausola 5 della Direttiva, a condizione, è però, che tale misura sia effettiva nel prevenire gli abusi operati dal datore, anche pubblico[4].

A seguito di quelle due sentenze, come è noto, i giudici italiani hanno iniziato a condannare le pubbliche amministrazioni al risarcimento del danno nell’ipotesi in cui il lavoratore veniva mantenuto in servizio a seguito di una reiterazione abusiva di contratti a termine.

Tale misura è però sembrata a molti poco “effettiva”, anche perché c’era chi giungeva a negarla e chi a legarla alle normali regole civilistiche, richiedendo l’allegazione e la prova circa il bene della vita perduto o non acquisito, laddove invece, all’evidenza, il risarcimento del danno non poteva che avere natura prettamente punitiva, per essere “effettivamente” persuasiva.

Così il Tribunale di Rossano, con l’ordinanza del 14.12.2009 investiva nuovamente la Corte europea che si pronunciava con l’ordinanza Affatato del 1° ottobre 2010, nel corso della cui trattazione lo Stato italiano, tramite la sua Avvocatura, si produceva in una delle sue più mirabili esibizioni degne del miglior Alberto Sordi[5], dicendo e non dicendo (così lasciandosi aperta la strada per negarlo nei giudizi nazionali) che la norma di cui all’art. 5 comma 4 bis del D.Lgs. 368/2001, ossia la norma che prevede la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro protratto oltre i 36 mesi, si sarebbe dovuta applicare anche al pubblico impiego.

L’artifizio retorico dell’Avvocatura è stato talmente convincente da indurre la Corte di Giustizia (dove opera gente seria che evidentemente non poteva credere che uno Stato membro si spingesse a utilizzare tali espedienti) prendeva per buona la versione dell’applicabilità della norma e rimetteva al giudice nazionale per verificare una situazione che, astrattamente, con le modifiche effettuate, sembrava in linea con i dettati della Direttiva[6].

Tornando alle vicende italiane, l’ordinanza di pregiudizialità comunitaria del Tribunale di Rossano aveva fatto rumore e molti giudici, in forza di tale pronuncia, iniziavano a convertire i contratti [7], mentre in tutt’Italia i precari di ogni settore –complice anche il blocco delle stabilizzazioni disposto dal governo Berlusconi, eletto nel 2008 – cominciavano a promuovere giudizi che, per la naturale prudenza che contraddistingue i giudici italiani, si concludevano, per lo più con la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno.

Insomma, complice anche il comportamento di uno Stato che si vedeva continuamente condannare dalla giurisprudenza di Strasburgo per la reiterata violazione della normativa in materia di Diritti dell’Uomo[8], preferibilmente a danno dei dipendenti pubblici, attraverso l’approvazione di norme retroattive che incidevano su diritti ormai quesiti dei lavoratori, il precariato pubblico cominciava a rumoreggiare e la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, sempre rigide a difesa dello Stato e mai dei dipendenti, era sotto continuo assedio.

L’autogol della sentenza 392 del 2012 di cui si è detto, l’approssimarsi della decisione di numerose, ormai troppe, ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale sulla normativa della scuola [9] e, non da ultimo, il convegno organizzato proprio nel Sacrario dell’alta Corte il 14 giugno 2012, spostato addirittura nell’aula magna, da Magistratura democratica, dall’Associazione giuslavoristi italiani e dalla Rivista giuridica del lavoro, ovvero da magistrati, avvocati e studiosi del diritto del lavoro che hanno criticato pesantemente la giurisprudenza della Corte, ha così partorito la sentenza 10127/2012 qui in commento.

Si può senz’altro formulare l’ipotesi che la sentenza non nasca per caso e che abbia la finalità di porre un freno alla dilagante giurisprudenza favorevole ai precari della Scuola, in vista anche della pronuncia della Corte costituzionale e delle eventuali rimessioni alla Corte europea.

Fatte queste premesse, possiamo ora venire al merito della decisione.

Perché no alla conversione?

La Corte afferma che la reiterazione continua, persistente, imperterrita, anche per decenni, di contratti nel settore scolastico non violerebbe le prescrizioni della direttiva. Se lo dice il massimo organo giurisdizionale della nostro paese (incaricato, non ci stanchiamo di ripeterlo, ai sensi degli artt. 65 e segg. Regio decreto 12/1941 (Ordinamento giudiziario), all’uniforme interpretazione della legge nel nostro paese), la motivazione addotta per tale decisione va valutata con la massima attenzione.

Non foss’altro perché, in gioco, vi è il destino di migliaia e migliaia di lavoratori che da anni attendono una definizione del loro futuro lavorativo, affidato non alla casualità delle vicende parentali od alla conoscenza di qualche personaggio che li ha raccomandati, ma alla partecipazione di precise (e legittime) selezioni svolte secondo le norme di legge, approvate dal Parlamento italiano.

Il ragionamento della Cassazione è, invece, molto, troppo, semplice.

Afferma la Corte che la disciplina specifica della scuola sarebbe rinvenibile nella legge 297 del 1994 e nella più recente 124 del 1999.

Secondo tale normativa il sistema di reclutamento nel settore della scuola segue un suo regime specifico, basato sulle graduatorie da cui attingere il personale da assumere in via definitiva (chissà quando, comunque piano piano). Il suddetto sistema sarebbe finalizzato ad assicurare, di fronte ad una certa variabilità del numero degli utenti, la costante erogazione del servizio scolastico.

Questa normativa, afferma la Corte, non risulta essere stata abrogata né dal testo unico sul pubblico impiego del 2001 (che infatti, si legge nella sentenza, all’art. 70, fa salve le procedure di reclutamento di cui alla legge 247) e neppure dal D.Lgs. 368/2001 (applicazione della Direttiva UE 99/70 sul contratto a termine). Conferma di tale impostazione sarebbe l’art. 9 del D.L. n. 70 del 2011 che, nel ribadire l’estraneità alla disciplina del contratto a termine delle procedure di reclutamento del personale scolastico, avrebbe suggellato la specialità della materia; materia alla quale, per di più, non si applica neppure l’art. 5 comma 4 bis che, come abbiamo visto, dispone la trasformazione automatica a tempo indeterminato dei contratti dopo 36 mesi di rapporti a termine.

Insomma, per farla breve, la scuola è un modo a sé. Anzi, il sistema scolastico è del tutto estraneo non solo alla normativa generale del contratto a termine di cui al D.Lgs. 368/2001 (normativa, si badi bene, approvata in applicazione della Direttiva UE 99/70) ma, addirittura, a quella del testo unico del pubblico impiego di cui al D.lgs. 165/2001.

Ma questo giustifica l’estraneità del settore scolastico anche alla disciplina della clausola 5 della direttiva? Sì, risponde la Cassazione.

La clausola 5, afferma la Corte, nel disporre l’obbligo dell’adozione delle misure preventive prevede che ciò avvenga in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori.

Ecco, dunque, la trovata su cui viene costruita la sentenza.

Poiché l’assunzione dei precari avviene attraverso le graduatorie, dunque con un metodo imparziale, gli abusi sono esclusi (sentenza, par. 63).

Inoltre nello specifico settore del servizio scolastico non sarebbe possibile determinare a priori il fabbisogno per la copertura del servizio per il variare degli utenti e quindi sarebbe giustificata, anche sotto tale profilo, la disciplina “equivalente” della scuola dettata dallo Stato italiano (par. 40, 59 e 60).

Anzi: il precario italiano è un fortunato, come afferma la Corte in questa incredibile sentenza (paragrafo 46, leggere per credere) : né può sottacersi come il sistema in esame risponda anche all’esigenza di parametrare nella scuola una flessibilità in entrata che comporta una situazione di precarietà, però bilanciata, ampiamente, da una sostanziale e garantita (anche se in futuro[10]) immissione in ruolo che, per altri dipendenti pubblici è ottenibile solo attraverso il concorso e per quelli privati può risultare di fatto un approdo irraggiungibile. Ciò ha portato autorevole dottrina a parlare nella materia scrutinata di una tipologia di flessibilità atipica destinata a trasformarsi in una attività lavorativa stabile.

La Cassazione, dunque, con questo provocatorio ragionamento sembra ignorare che l’inserimento in graduatoria non assicura l’immissione in ruolo, come, purtroppo, sanno bene i tanti docenti che, dopo tanti anni di precariato, non hanno potuto stipulare neppure una supplenza breve a causa dei feroci tagli della “riforma” Gelmini.

Ma La Suprema Corte, con il suo lapidario giudizio, lascia addirittura supporre che la collocazione in graduatoria sia stata concessa dall’Amministrazione Pubblica come un grazioso regalo in favore di aspiranti docenti privi di alcun merito.

 

La Cassazione, con tutta evidenza, non ha prestato attenzione al dato inconfutabile secondo cui nelle graduatorie di cui trattasi, ai sensi della novella di cui all’art. 1 della Legge 333/2001, sono collocati “[…] i docenti in possesso di abilitazione o idoneità conseguita per effetto del superamento di procedure concorsuali per esami e titoli, o per effetto del conseguimento dell’abilitazione a seguito della frequenza delle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) […]” con l’ulteriore precisazione che, ai sensi dell’art. 1, comma 6-ter, della Legge 27 ottobre 2000, n. 306, “[…] l’esame di Stato che si sostiene al termine del corso svolto dalle scuole di specializzazione di cui all’articolo 4 della legge 19 novembre 1990, n. 341, e successive modificazioni, ha valore di prova concorsuale ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti previste dall’articolo 401 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 […]”.

Appare, inoltre, degna di nota la circostanza per cui, ai sensi della Legge 27 ottobre 2000, n. 306, l’accesso alle SSIS avveniva attraverso test preselettivi necessari a rientrare nel numero chiuso stabilito dal MIUR, con apposito Decreto, sulla base del fabbisogno di personale docente nelle scuole di ogni ordine e grado individuato e comunicato dal Dipartimento per l’istruzione!

 

In altri termini, la Cassazione ha finto di ignorare che, nelle fattispecie sub judice, non si discuteva dell’aspetto genetico del rapporto, già realizzatosi – seppure a tempo determinato – mediante l’utilizzo delle graduatorie pubbliche precipuamente formate, ma ciò che s’intendeva regolare in via giudiziale era soltanto il profilo della durata del rapporto di lavoro regolarmente instaurato.

In buona sostanza, non si trattava di regolarizzare un rapporto di lavoro pubblico indebitamente instaurato, ma, al contrario, di eliminare una condizione di illegittimità e abusività dello stesso (causata dal datore di lavoro pubblico) sotto il profilo dell’indebita apposizione del termine contrattuale; e, con essa, la procurata lesione dei diritti fondamentali e della stessa dignità della lavoratrice (di rango primario, in quanto costituzionalmente rilevanti).

Non si comprende, dunque, perché l’accesso alle graduatorie con procedura selettiva pubblica possa sanare gli abusi conseguenti alla successione, pressoché infinita, dei contratti a termine nel settore scolastico.

La Direttiva è chiarissima nel vietare gli abusi nella reiterazione di contratti al fine di evitare la formazione del precariato. Si legge infatti nella sentenza Adelener (in causa C-212/04): 63. In tale ottica l’accordo quadro intende delimitare il ripetuto ricorso a quest’ultima categoria di rapporti di lavoro, considerata come potenziale fonte di abuso a danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima volte ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti. Nello stesso senso tutta la giurisprudenza successiva della Corte europea.

Le modalità di reclutamento dei precari non centrano quindi assolutamente nulla: i precari restano tali indipendentemente da come vengono reclutati. Sono i precari che vanno eliminati attraverso misure adeguate ed effettive, prevendo e sanzionando la reiterazione dei rapporti a termine.

Quanto alla giustificazione che legittimerebbe la non applicabilità della Direttiva alla realtà scolastica italiana, regolata, come dice la sentenza (par. 59), da un corpus normativo che guarderebbe ai posti vacanti e non vacanti al 31 dicembre ed alla sostituzione del personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, corpus normativo che costituirebbe norma equivalente alle misure preventive imposte dalla clausola 5 della Direttiva, siamo alla vera e propria presa in giro.

Il suddetto sistema sarebbe finalizzato ad assicurare, di fronte ad una certa variabilità del numero degli utenti, la costante erogazione del servizio scolastico.

Forse che nell’amministrazione fiscale lo Stato sa già sin dall’inizio quanti cittadini pagheranno le tasse e quanto? Forse il concessionario del servizio autostradale sa con sicurezza all’inizio dell’anno quanti autoveicoli passeranno sulle sue autostrade. E quanti saranno gli incendi di cui si dovrà occupare il corpo dei vigili del fuoco? E le patenti che dovrà rilasciare la motorizzazione civile?

Potremmo continuare all’infinito, poiché è evidente come non esista settore alcuno, privato o pubblico, dove invece è previsto un organico ben determinato, che possa determinare con certezza la quantità di lavoro che dovrà essere affrontata.

Come si vede una scusa che non ha neppure la dignità di dovere essere seriamente contestata: un norma europea nata per salvaguardare le piccole  e medie imprese (ovvero gli imprenditori “deboli”) che avrebbero potuto essere danneggiate da una normativa particolarmente rigida, viene artatamente “piegata” a giustificare gli abusi dello stato imprenditore. Per di più in un settore, come quello della scuola, che meno di tanti altri è destinato ad una diminuzione degli utenti.

Occorre invece soffermarci su una circostanza: la Corte insiste sul fatto che ciascun incarico di supplente sarebbe temporaneo e collegato alla specifica esigenza di ciascun istituto scolastico (par. 61 sentenza).

In proposito, tuttavia, è facile osservare che nella serie infinita dei contratti a termine stipulati dai docenti, il datore di lavoro non è il singolo Istituto Scolastico di turno ma il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nel cui ambito quel rapporto di lavoro ha soddisfatto un’esigenza lavorativa istituzionale ordinaria, corrente, nel tempo immutata, tutt’altro che eccezionale o temporanea, ma destinata a soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro.

Anche l’unico aggancio che la Corte di Cassazione ha potuto trovare nelle decisioni della Corte europea, e precisamente con la sentenza Kücük del 26 gennaio 2012[11], citata nella sentenza (par. 62 e segg.), può essere considerato un autogol clamoroso. Si trattava infatti, in quella sentenza, di una dipendente di un Tribunale tedesco, la quale da circa 10 anni era stata assunta a termine  con 13 contratti, tutti stipulati in sostituzione di personale assente per maternità.

La questione è giunta alla Corte europea che è stata investita del quesito se quella successione di contratti, tutti singolarmente giustificati, costituisse o meno un abuso nella successione.

La Corte europea, come ha osservato il prof. Menghini nella sua relazione alla tavola rotonda del 14 giugno 2012 in Cassazione, ha risolto la questione nell’unico modo possibile. Ha ribadito, cioè che in linea di principio, la sostituzione di un assente per soddisfare esigenze provvisorie del datore di lavoro, costituisce una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, 1, lettera a) dell’accordo quadro, precisando che trattandosi di assenze per maternità e congedi parentali vi sono in ballo anche obiettivi di politica sociale (n.30-32). Ha aggiunto però che, siccome ciò che conta è il raggiungimento delle finalità antifraudolente, tale clausola vieta il rinnovo dei contratti che soddisfano, di fatto, esigenze non provvisorie ma durevoli e permanenti (nn. 36-37). Spetta dunque alle varie autorità dello Stato membro garantire l’osservanza della clausola stessa, verificando se di fatto regole nazionali come quella in questione siano concretamente utilizzate per soddisfare esigenze provvisorie di personale oppure permanenti e durevoli (n. 39). Per verificare se le ripetute assunzioni volte a sostituire personale assente ed a garantire la funzionalità dei servizi configurino un abuso la Corte invita a guardare alla vicenda nel suo insieme, e cioè al numero dei contratti e soprattutto alla loro durata complessiva in un dato arco temporale (n. 40). Il giudice nazionale deve, dunque, distinguere: un conto, in vero, è che un lavoratore in 10 anni sia chiamato a sostituire lavoratrici in maternità o congedo parentale con 13 contratti della durata media di 3,4 mesi; un altro conto è se tale durata media è 10 mesi, con un impiego quasi permanente in attività sostitutive: in questo secondo caso la clausola è violata.

Capito, quindi?

La Corte di cassazione richiama un precedente che le dà manifestamente torto al fine di giustificare contratti a termine che chiaramente non hanno nulla di provvisorio ma tutto di permanente (durano 10 mesi l’anno e si ripetono per innumerevoli anni) e soprattutto non possono essere considerati come “supplenze” dal momento che gli incaricati annuali o fino al termine delle attività didattiche non sostituiscono alcun docente di ruolo temporaneamente assente.

Ma esiste un altro passaggio in cui il ragionamento della Cassazione raggiunge i connotati del puro paradosso. Secondo la Suprema Corte, infatti, la “ragione oggettiva” predeterminata dal legislatore per l’apposizione del termine al contratto di lavoro consisterebbe anche nella “vacanza del posto nell’organico di diritto”!. Per fare un semplice esempio, se tale ragione giustificatrice dei contratti a termine fosse estesa al settore privato, la Fiat potrebbe assumere a tempo determinato tutti i propri dipendenti giustificando tale forma contrattuale semplicemente con la mancata assunzione a tempo indeterminato nell’organico funzionale delle sue unità produttive. Insomma, la giustificazione del contratto a termine consisterebbe nella pura e semplice volontà di non assumere a tempo indeterminato pur nella consapevolezza della necessità dell’impiego del lavoratore per il funzionamento ordinario dell’attività d’impresa.

Ora, in riferimento al personale docente, la disposizione di cui all’art. 4, commi 1 e 2, della Legge n. 124/1999, prevede il conferimento di incarichi annuali  e, quindi, la stipula di contratti dal primo settembre al 31 agosto, per la copertura delle cattedre e dei posti che risultino vacanti e disponibili entro il 31 dicembre di ciascun anno, nonché il conferimento di incarichi sino al termine delle attività didattiche e quindi la stipula di contratti dal primo settembre al 30 giugno, per la copertura di cattedre e posti che si rendano di fatto disponibili entro il 31 dicembre di ciascun anno.

La situazione normativa sin qui descritta comporta la possibilità per l’amministrazione di reiterazione senza limiti di contratti a tempo determinato con il medesimo lavoratore per coprire permanenti vuoti di organico, e ciò senza soluzione di continuità e per un numero di volte indeterminato.

È importante rilevare, a questo punto, che il suddetto meccanismo di conferimento delle supplenze non appare diretto a soddisfare esigenze temporanee o straordinarie, come potrebbero essere quelle correlate alle assenze occasionali d’insegnanti di ruolo, bensì è volto a far fronte ad esigenze strutturali e permanenti: le supplenze annuali, cioè quelle dal primo settembre al trentuno agosto, vengono infatti attribuite per coprire posti “vacanti”, quindi posti dell’organico che sono privi di un titolare e che tali possono rimanere per mere esigenze di politica della finanza pubblica, vale a dire per la esclusiva ragione che il superamento, in un determinato periodo di tempo, di un certo numero di assunzioni a tempo indeterminato, nel settore del personale scolastico, viene considerato dall’Esecutivo non compatibile con le esigenze del bilancio dello Stato.

Un discorso analogo, peraltro, si può fare per le supplenze dal primo settembre al trenta giugno, le quali, come si è già visto, vengono conferite in relazione a “posti di fatto disponibili”, vale a dire quei posti che non rientrano nel cosiddetto organico di diritto del personale docente, ma sussistono in funzione della variabilità del numero degli alunni iscritti. Anche nel caso di tale tipologia di supplenze, è consentita la reiterazione del contratto di lavoro per un numero indeterminato di volte (anche dieci o quindici anni scolastici, come effettivamente accade), con la conseguenza che, grazie a questo meccanismo di supplenze che la legge chiama “temporanee”, è possibile mantenere, eventualmente, sottodimensionato l’organico di diritto e soddisfare, contemporaneamente, le esigenze di lungo periodo dell’Amministrazione.

Tutto ciò, peraltro, in contraddizione inspiegabile con quanto poco prima perentoriamente affermato dal medesimo legislatore nazionale che, all’art. 36, comma 1, D. Lgs. 165/01, si premurava di disporre che: “Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Alla luce degli evidenti lapsus della Suprema Corte, appare ancora più inquietante la diffida ai giudici di merito dal sollevare questioni di pregiudizialità alla Corte europea. E’ una diffida che, a nostro sommesso parere, non sarà tenuta in conto da parte di quei giudici che hanno a cuore la corretta applicazione del diritto e non solo l’interesse dello Stato padrone.

Ovvero ancora: o è il colpo di coda del drago che sta morendo o è solo un precedente dato allo Stato italiano per trattare da una posizione di forza in un inevitabile provvedimento di sistemazione del settore.

Perché no al risarcimento?

Fatta la scelta che abbiamo visto, il no al risarcimento ne è conseguenza logica e necessaria.

Se i contratti sono legittimi, perché frutto di un corpus legislativo compiuto e conforme alla Direttiva, l’applicazione della sanzione equivalente non ha senso.

Il precario è tale per legge e consacrazione europea: taccia e non si lamenti. Del resto, come abbiamo visto, è ben più fortunato di altri…

Perché no, infine, all’equiparazione economica?

E qui siamo alla conclusione di un percorso perverso.

Il discorso che si è fatto sopra, relativo alla ritenuta autonomia di ciascun rapporto precario giustifica (giustifica?) il diverso trattamento economico, poiché i periodi d’inattività tra un contratto e l’altro sono privi “di ogni rilevanza giuridica” (par. 71). E, si badi bene, i periodi d’inattività tra un contratto e l’altro, per i docenti precari, o non esistono (nel caso dei contratti stipulati dal primo settembre fino al 31 agosto) o coincidono con le ferie estive (nel caso dei contratti con termine finale al 30 giugno). E non si vede come il godimento di ferie retribuite da parte dei docenti di ruolo possa giustificare una siffatta disparità di trattamento, sotto il profilo della progressione stipendiale, con i docenti precari.

Qui, la violazione della clausola 4 della Direttiva è clamorosa.

Ci limitiamo a ricordare quanto recentemente affermato dalla Corte europea nella sentenza 8 settembre 2011, in causa C-177/10 Rosado Santana:

61 Nell’ipotesi in cui un giudice nazionale, compresa una Corte costituzionale, escludesse l’applicazione della direttiva 1999/70 e dell’accordo quadro al personale dell’amministrazione pubblica di uno Stato e/o permettesse disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici temporanei e i dipendenti pubblici di ruolo in mancanza di ragioni oggettive nell’accezione di cui alla clausola 4, punto 1, di detto accordo quadro, si dovrebbe concludere che una giurisprudenza siffatta sarebbe contraria alle disposizioni di tali atti del diritto dell’Unione e violerebbe gli obblighi che, nell’ambito delle loro competenze, incombono alle autorità giurisdizionali degli Stati membri di assicurare la tutela giuridica attribuita ai singoli dalle disposizioni di detto diritto e di garantirne la piena efficacia.

62 In tali circostanze, occorre risolvere la prima e seconda questione dichiarando che la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro che figura in allegato ad essa devono essere interpretati nel senso che, da un lato, essi si applicano ai contratti e rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e gli altri enti del settore pubblico e, dall’altro, richiedono che sia esclusa qualsiasi disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici di ruolo e i dipendenti pubblici temporanei comparabili di uno Stato membro per il solo motivo che questi ultimi lavorano a tempo determinato, a meno che la disparità di trattamento non sia giustificata da ragioni oggettive nell’accezione di cui alla clausola 4, punto 1, di detto accordo quadro.

C’è altro da dire?

Si.

Il 20 giugno 2012 la Cassazione rendeva la sua sentenza “tombale” sulla scuola.

Lo stesso giorno, alla XIV Commissione del nostro Parlamento nazionale sui rapporti con l’Unione europea, è risultato che vi sono ben due procedure di infrazione contro l’Italia per il personale ATA della Scuola iniziate già nel 2010 dopo l’entrata in vigore dell’art.4, comma 14-bis, legge n.124/1999 (norma introdotta nel settembre 2009) per impedire la conversione in contratti a tempo indeterminato dei rapporti a termine della scuola, e risulta che la procedura è stata estesa a tutto il personale della scuola dalla Commissione europea (quindi anche ai docenti) dopo l’art.9, comma 17, D.L. n.70/2011 (considerata norma abusiva dalla Commissione.

Si legge nel parere[12]:

La XIV Commissione (Politiche dell’Unione europea), esaminato il testo del disegno di legge recante Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita (C. 5256 Governo, approvato dal Senato); considerato che sussistono elementi di connessione tra la materia oggetto del provvedimento in esame e numerose procedure di infrazione aperte dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia; preso atto che, in materia di contratti a tempo determinato, la Commissione europea ha aperto due procedure di infrazione (proc. n. 2010/2045 e proc. 2010/ 2124), per la non corretta trasposizione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. In particolare, nell’ambito della procedura d’infrazione 2010/2124, la Commissione europea ritiene che la prassi italiana di impiegare personale ausiliario tecnico amministrativo nella scuola pubblica per mezzo di una successione di contratti a tempo determinato, senza misure atte a prevenirne l’abuso, non ottempera gli obblighi della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE; tenuto conto che, secondo informazioni raccolte dalla Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’UE, i servizi della Commissione europea si appresterebbero a proporre l’adozione di una lettera di messa in mora complementare, poiché si riterrebbe che la successione di contratti a tempo determinato non sia più circoscritta al solo personale ausiliario tecnicoamministrativo, bensì ai diversi ruoli del personale della scuola; visto che – nell’ambito di una razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti – il provvedimento in esame configura il contratto a tempo indeterminato quale contratto prevalente, disincentivando il ricorso ai contratti a tempo determinato; visto che l’articolo 1, commi da 9 a 3, che interviene sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato (cosiddetto contratto a termine) e del contratto di somministrazione, modificando in più parti la normativa di cui al decreto legislativo 2001 n. 368, attuativo alla direttiva 1999/70/CE, potrebbe consentire di rispondere alle contestazioni mosse dalla Commissione europea…

Dunque le nostre strutture istituzionali, lo stesso giorno, con una mano (quella giurisdizionale) depositano una sentenza che salva una normativa nazionale che, con l’altra mano (in sede legislativa), si dà atto essere stata valutata dalla Commissione come contraria a quella europea.

Forse sarebbe bene che gli organi del nostro Stato, magistratura e parlamento, si connettessero tra loro.

Per il bene di tutti.

Roma, 3 luglio 2012

Sergio Galleano e Walter Miceli.

P.S.: la violazione delle normative europee, denunciata dalla Commissione, ove ritenuta fondata dalla Corte di giustizia, comporterà pesanti multe per lo Stato inadempiente. In altri termini, pagheranno i cittadini italiani…more solito.



[1]              Norma aggiunta dal comma 40 dell’art. 1, L. 24 dicembre 2007, n. 247 e poi così modificato dall’art. 21, D.L. 25 giugno 2008, n. 112. Vedi, anche, i commi 43, 92 e 94 del citato articolo 1.

[2]              Oltre alla responsabilità personale del dirigente che ha stipulato il contratto illegittimo, ma se non c’è risarcimento a favore del lavoratore, non c’è neppure responsabilità del dirigente (e poi: si è mai visto un dirigente che ha pagato i danni per la stipulazione di un contratto illegittimo?)

[3]              Per tutte si ricordi la sentenza Angelidaki del 23 aprile 2009 in cause C- 378-380/07: 96 In tale contesto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, la nozione di «ragioni obiettive» ai sensi della clausola 5, n. 1, lett. a), dell’accordo quadro deve essere intesa nel senso che essa si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenze Adeneler e a., cit., punti 69 e 70, e 13 settembre 2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso, Racc. pag. I-7109, punto 53, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punti 88 e 89). 97 Per contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non sarebbe conforme a criteri come quelli precisati ai due punti precedenti (v. le precitate sentenze Adeneler e a., punto 71, e Del Cerro Alonso, punto 54, nonché l’ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 90). In tal senso tutte le pronunce successive della Corte.

[4]  Così si esprime la Corte europea nella sentenza Marrosu e Sardino del 7 settembre 2006 (in causa C‑53/04):

51      Inoltre quando, come nel caso di specie, il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (sentenza Adeneler e a., cit., punto 94).

52      Anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14 dicembre 1995, causa C‑312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I‑4599, punto 12, nonché Adeneler e a., cit., punto 95).

53      Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva» (sentenza Adeneler e a., cit., punto 102).

[5] Fermo restando il massimo rispetto per il grande attore, ovviamente: ma altro ci si aspetta da chi dovrebbe rappresentare degnamente e istituzionalmente lo Stato italiano.

[8]              www.studiogalleano.it: Personale ATA della scuola – anzianità di servizio non riconosciuta – la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia, ma come non dimenticare la storica sentenza Arras sulle pensioni dei dipendenti del Banco di Napoli, nonché le precedenti condanne del nostro paese che sono ricordate nelle denunce di cui alla nota 1.

[10]             Qui siamo al dadaismo più puro!

[11]             Resa in causa C-586/10.

[12] Reperibile su www.camera.it, lavori, XIV commissione, ecc.