Tar Lazio – Sentenza n. 219 del 09 gennaio 2014

Con la sentenza n. 219-2014 depositata il 09/01/2014, il TAR del Lazio sez. III^ bis di Roma, ha affermato -tra gli altri- un importante principio in tema di “anonimato” con riferimento al tanto avversato concorso per D.S. espletato nella Regione Lazio.

Difatti, nella precisata statuizione è dato testualmente leggersi: “Il Collegio ritiene prioritario affrontare la seconda censura del ricorso principale unitariamente alla prima censura dei motivi aggiunti, con cui si deduce la violazione dell’anonimato e, quindi, la compromissione della serietà della selezione in quanto le bustine contenenti i dati anagrafici dei candidati sarebbero stati di consistenza tale che era possibile leggerne in controluce i nominativi già prima dell’apertura delle stesse; inoltre nelle 5 diverse sedi concorsuali delle prove svolte nel Lazio “sembrano essere state utilizzate bustine di colore diverso, ciò che avrebbe determinato la riconoscibilità dei candidati “per gruppi di provenienza”, con conseguente violazione delle prescrizioni del DPR 9.05.1994, n.487, art.14. Inoltre, si deduce l’illegittimità della procedura in quanto:

a) nelle diverse sedi in cui si sono svolte le prove scritte sarebbero state usate, per raccogliere e conservare i dati identificativi dei candidati, bustine di colore diverso;

b) la busta utilizzata per contenere i dati anagrafici dei candidati sarebbe risultata trasparente;

e) “l’accoppiamento” delle generalità dei candidati agli elaborati non risulterebbe lineare e coperta da oggettive garanzie.

Ed invero, dapprima il TAR Lombardia (TAR Lombardia, n.2035/2012) e, successivamente, il Consiglio di Stato, VI Sezione, inizialmente con ordinanza cautelare e quindi con decisione nel merito (sentenza n. 3747/2013 depositata in data 11 luglio 2013) hanno ritenuto sussistente l’interesse strumentale dei partecipanti al concorso a chiedere l’annullamento dello stesso o, comunque, della fase concorsuale in cui il vizio si è verificato – anche quando, come nel caso in esame, non sia emerso in concreto alcun elemento in grado di avallare l’ipotesi che la Commissione giudicatrice abbia effettivamente violato la garanzia dell’anonimato- sostenendo che “ la possibilità astratta di attribuire la paternità degli elaborati, prima dell’apertura della busta piccola contenente le generalità dei candidati, è di per sé sufficiente ad invalidare l’intera fase della procedura relativa allo svolgimento delle prove scritte”.

Ciò in quanto, come evidenziato dal Consiglio di Stato, “nelle procedure concorsuali l’esigenza di assicurare il rispetto effettivo del principio costituzionale del pubblico concorso e la regola fondamentale dell’anonimato ad esso sottesa costituiscono la base di un dovere indefettibile per l’amministrazione che le impone di utilizzare, in conformità alla condotta tipica definita a livello normativo, buste, all’interno delle quali i concorrenti inseriscono i dati identificativi, materialmente tali da non consentire nemmeno astrattamente che la commissione o altri possano, in qualunque condizione ambientale, leggere i dati identificativi dei concorrenti stessi fino al momento procedimentale dedicato all’apertura delle buste”.

Orbene, anche a volere condividere tale interpretazione, il Collegio rileva che il principio non è applicabile nel caso in esame, per insussistenza dei medesimi presupposti di fatto.

Infatti, diversamente a quanto accertato con riferimento alle buste utilizzate nel concorso per Dirigenti Scolastici della Regione Lombardia, quelle utilizzate per il concorso della Regione Lazio – alla cui provvista ha provveduto autonomamente l’URS del Lazio – all’esame effettuato dal Collegio, nell’udienza pubblica del 22 novembre 2013, in cui si è proceduto all’apertura del plico depositato dall’amministrazione nel contraddittorio delle parti, sono risultate ictu oculi di colore, consistenza e spessore (buste gialle e foderate al loro interno da carta nera), tale da rendere addirittura impossibile, e non soltanto difficoltoso, verificarne in controluce il contenuto.

Pertanto, il Collegio ha ritenuto superfluo, nell’economia processuale, disporre una verificazione tecnica analoga a quella disposta dal Consiglio di Stato con ordinanza cautelare della sez.IV, n.336/2013 del 13 gennaio 2013.

Inoltre, con riferimento all’ulteriore profilo di illegittimità della non omogeneità del colore delle stesse, ipotizzato dai ricorrenti, non soltanto con nota prot. 9183/2013, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio ha smentito tale circostanza (specificando di non essere a conoscenza del tipo di materiale utilizzato nelle prove scritte del concorso per dirigente scolastico nelle altre Regioni, in quanto ogni U.S.R. ha gestito autonomamente – come previsto dal Bando- l’organizzazione delle prove scritte della procedura e di avere provveduto direttamente alla provvista del materiale necessario alla selezione) ma le stesse 30 buste depositate in giudizio sono state individuate prendendo, in stretto ordine alfabetico, per ciascuna delle 5 sedi scolastiche in cui si sono svolte le prove scritte del concorso i nominativi dei primi 6 candidati (3 che hanno superato a prova e tre che non l’hanno superata). Orbene, tali buste che appaiono tutte del medesimo colore e consistenza.

Ad ulteriore sostegno della correttezza della procedura, il verbale del 20 dicembre 2011 attesta che la Commissione: i) ha verificato l’integrità delle chiusure dei pacchi contenenti gli elaborati; ii) ha proceduto al rimescolamento in modo da far risultare casuale l’ordine di presentazione; iii) ha proceduto alla suddivisione dei 926 pacchi in due gruppi di 462 assegnati per la correzione alla prima sottocommissione e 464 assegnati alla seconda sottocommissione; iv) ha riposto i due gruppi di pacchi in due armadi poi chiusi e le cui chiavi sono state date in custodia una per ciascuna al Presidente della Commissione e alla segretaria.

Conseguentemente, le censure in esame devono essere disattese”.

Alla luce di tanto, e rigettando anche altre censure, peraltro già oggetto di precedenti valutazioni dello stesso TAR del Lazio in analoghe controversie, i ricorrenti sono stati condannati al pagamento delle spese di giudizio quantificate in sentenza in €. 3.000,00 oltre IVA e CAP.

Avv. Giuseppe Policaro