La revoca del contratto al supplente è illegittima se non per giustificati motivi

 

Il contratto individuale di lavoro del docente assunto a tempo determinato è disciplinato dall’art.25 del CCNL vigente; il comma 4 del citato articolo, precisa che per tale contratto, è richiesta la forma scritta ed in esso devono essere comunque indicati taluni aspetti essenziali, definiti nelle lettere a), b), c), d), e) del medesimo articolo nonché “le cause che ne costituiscono condizioni risolutive”. Il rapporto di lavoro soggiace alla disciplina del CCNL, “è comunque causa di risoluzione del contratto l’annullamento della procedura di reclutamento che ne costituisce il presupposto”. In tal caso si fa riferimento solo alle assunzioni a tempo indeterminato.

Le condizione risolutive del contratto individuale di lavoro per il personale assunto a tempo determinato sono stabilite dall’art.8 del D.M. n.131 del 2007, “Regolamento, recante norme sulle modalità di conferimento delle supplenze al personale docente ed educativo”; i commi 1 e 2 indicano in effetti le cause che potrebbero determinare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, in primis la mancata assunzione in servizio dopo l’accettazione o l’abbandono del servizio stesso, mentre giammai potrebbe accettarsi una revoca del contratto per rientro anticipato del titolare. Su questo punto l’ARAN, attraverso un orientamento applicativo, ha specificato che “l’art. 18 comma 2 lett c) del CCNL 04/08/1995 prevedeva espressamente la risoluzione del contratto stipulato con il supplente a seguito del “rientro anticipato del titolare”, questa norma non è stata più ripresa dai successivi CCNL per cui si deve considerare non più applicabile”.

Pur riconoscendo le fattispecie sanzionatorie dell’art.8 del D.M.131/2007, le quali, come afferma successivamente il comma 4 “non si applicano o vengono revocate ove i previsti comportamenti sanzionabili siano dovuti a giustificati motivi suffragati da obiettiva documentazione da far pervenire alla scuola”, la casistica giurisprudenziale è foriera di esempi che possono aiutare a comprendere come la revoca anticipata ed immotivata del contratto non sia giustificabile e per nulla legittima.

Da premettere che la tematica merita di essere affrontata chiarendo in primis il principio generale secondo cui non è possibile revocare la supplenza al docente assunto a tempo determinato.

Anzitutto, occorre sottolineare che la privatizzazione del pubblico impiego, ex D.Lgs. n.29 del 1993, ora D.Lgs. n.165 del 2001, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” ha definito nel rapporto di lavoro una parità tra le parti che esclude ogni iniziativa unilaterale, in capo al datore di lavoro, volta appunto a modificare o revocare il contratto. L’art.5 comma 2 del D.Lgs. 165, sostituito dall’art. 34, comma 1, lett. a), D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 e, successivamente, così modificato dall’art. 2, comma 17, D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 135 così afferma “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatti salvi la sola informazione ai sindacati per le determinazioni relative all’organizzazione degli uffici ovvero, limitatamente alle misure riguardanti i rapporti di lavoro, l’esame congiunto, ove previsti nei contratti di cui all’articolo 9. Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici”. Da quanto sopra si deduce che il datore di lavoro non può trasferire i principi di autotutela e revoca, tipici del diritto amministrativo, nell’ambito dei contratti di lavoro, regolati invece da norme privatistiche.

E’ pacifico che la Pubblica Amministrazione abbia potere negoziale trovando esso legittimazione nell’art.1 comma 1bis della Legge n.241 del 1990 così come modificato dalla Legge n.15 del 2005 e successivamente dalla Legge n.69 del 2009 “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.

Lo stesso D.Lgs. 165/2001, all’art.2 stabilisce che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo(…) I rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente. I contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto; i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all’articolo 45, comma 2”. L’art.45 poc’anzi citato allude al fatto che “Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”.

Indi, come ben evidenziato dalla sentenza della Corte di Cassazione sez.civ. n.41 del 24 febbraio 2000, il D.Lgs. n.29/1993, (novellato dal D.Lgs. 165/2001) ha stabilito che“le posizioni soggettive dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono state modificate, nel senso che nei rapporti di lavoro non è dato di identificare interessi legittimi di diritto pubblico (…) l’amministrazione opera coi poteri del privato datore di lavoro, adottando tutte le misure inerenti all’organizzazione ed alla gestione dei rapporti (…) Una volta fondato il rapporto di lavoro su base paritetica, ad esso rimane estranea ogni connotazione autoritativamente discrezionale (così, Corte cost. 16 luglio 1987 n. 268). Più precisamente quand’anche la lesione lamentata dal prestatore di lavoro derivi dall’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione datrice di lavoro, la situazione soggettiva lesa dovrà, qualificarsi, alla stregua delle più recenti classificazioni civilistiche, come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, all’ampia categoria dei diritti di cui all’articolo 2907 c.c.”. I contratti di lavoro sono pertanto atti di natura privatistica.

In ordine al potere discrezionale non esercitabile dalla P.A. sui contratti di lavoro, si riporta un passo della sentenza n.8328 del 2010 della Corte Suprema di Cassazione nella parte in cui si dice che “nel rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.lgs. n.165 del 2001, art.2, non è ammissibile che il datore di lavoro pubblico possa sciogliersi unilateralmente da un contratto non essendovi alcuna norma che gli attribuisca un siffatto potere. Si sostiene inoltre che questo potere non troverebbe fondamento nella norma contrattuale collettiva (art.18 del CCNL comparto scuola del 4 agosto 1995) che prevede il recesso unilaterale dal rapporto in caso di annullamento della procedura di reclutamento, perché tale norma riguarderebbe il solo caso di assunzioni a tempo indeterminato”. Infra alla sentenza leggasi pure che “l’atto con cui l’Amministrazione revochi un incarico (nella specie, di insegnamento a tempo determinato), sul presupposto della nullità dell’atto di conferimento per inosservanza dell’ordine di graduatoria, equivale alla condotta del contraente che non osservi il contratto stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità, trattandosi di un comportamento con cui si fa valere l’assenza di un vincolo contrattuale, e non potendosi darsi esercizio del potere di autotutela in capo all’Amministrazione datrice di lavoro”.

A conferma di ciò è intervenuta una recentissima sentenza emessa da Tribunale di Chieti, la n.167 del 2014, in cui si rintraccia ancora una volta l’illegittimità della condotta che realizzi una revoca del contratto “il Ministero non poteva procedere alla risoluzione unilaterale del contratto, tanto più che tale risoluzione non è stata minimamente motivata né comunicata al ricorrente”; si rammenti anche l’Ordinanza dello stesso Tribunale del 23 aprile 2008, nella parte in cui si sottolinea che “osservato, ancora, come non possa ipotizzarsi che la P.A., nell’ambito della propria attività negoziale, possa unilateralmente revocare contratti regolarmente stipulati; ciò in linea generale ed in particolare nella fattispecie, in cui il contratto si era già perfezionato con l’accettazione della proposta; osservato, altresì, che il contratto stipulato dalla P.A. “jure privatorum” può risolversi solo nei casi stabiliti dalla legge (risoluzione per inadempimento, art. 1453 c.c;, per impossibilità sopravvenuta, art. 1463 c.c.; per eccessiva onerosità, art. 1467 c.c.)”. Si aggiunga il principio civilistico pacta sunt servanda ex art. 1372 in base al quale il contratto non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.

Katjuscia Pitino